Rosario Livatino, tutt’altro che giudice ragazzino

Rosario Livatino
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Ci sono dei personaggi che restano impressi nella memoria collettiva, pur non compiendo imprese titaniche, ma grazie al “semplice” attaccamento al proprio lavoro.

Tra questi vi è sicuramente Rosario Livatino, giudice del Tribunale di Agrigento, di cui l’anno prossimo ricorre il settantesimo anniversario della nascita. Uomo che, per una volta , mette d’accordo tutti. La società laica ne celebra la coraggiosa lotta contro le mafie e la Chiesa in aggiunta ne riconosce, con la proclamazione a Beato dello scorso maggio, le specchiate virtù morali e la fede che lo ha ispirato per tutta la vita, anche nella sua concezione di giustizia.

Livatino nasce nell’ottobre del 1952 a Canicattì, in Sicilia, dove sin da ragazzo si dimostra tanto bravo a scuola quanto generoso nell’aiutare i compagni in difficoltà, tant’è che in molti raccontano come Rosario rinunciasse puntualmente alla ricreazione per rispiegare argomenti a chi ne aveva bisogno. Una di quelle piccole azioni quotidiane che sommate a tante altre lo renderanno grande.

Dopo la laurea in giurisprudenza vincerà nel 1978 il concorso in magistratura e solo un anno più tardi verrà promosso a sostituto procuratore presso il Tribunale di Agrigento. Tribunale dove svolge le sue prime inchieste di mafia e dove resterà fino alla morte.

In dieci anni da magistrato si occupa di qualsiasi reato riguardante Cosa Nostra: dagli incendi dolosi contro i commercianti minacciati agli abusi edilizi, fino ad arrivare a indagini più impegnative che mettono in luce un colossale giro di fatture false di miliardi e miliardi e che portano all’arresto di alcuni tra i più importanti costruttori siciliani. Proprio grazie a questa inchiesta, conosce Paolo Borsellino e ha l’occasione di confrontarsi più volte con lui, visto che anche il giudice palermitano aveva carte scottanti riguardo gli appalti nella Sicilia orientale. Importante è il contributo del giudice di Canicattì nel maxi-processo alla malavita dell’agrigentino che portò alla condanna di una quarantina di mafiosi.

Con il tempo Livatino, da giudice “ragazzino”, epiteto che spesso gli sarà accostato, diventa un magistrato stimato per la sua onestà e meticolosità nel far rispettare la legge. È celebre un episodio successo il giorno di Ferragosto, quando si accorse, studiando le carte di un fascicolo, che un detenuto doveva essere scarcerato: nonostante alcuni colleghi lo volessero far desistere poiché giorno festivo, Livatino andò al carcere di Agrigento e firmò un documento di scarcerazione per quel detenuto. Un atto doveroso per un uomo come Rosario, che vedeva nel carcere un luogo di rieducazione in cui poter prendere coscienza dei propri errori per poi tornare in libertà. Per lui il carcere non era certo una gabbia dove poter rinchiudere delle bestie.

Durante tutta la sua carriera, infatti, riconosce la dignità del condannato, provando empatia anche per chi ha commesso i peggiori reati e arrivando a piangere di fronte a dei mafiosi uccisi. Quegli stessi mafiosi che lo avrebbero ucciso una mattina di settembre del 1990 mentre si stava dirigendo in ufficio, sulla solita strada statale che percorreva ogni giorno.

Un’abitudine questa che lo rese bersaglio facile da colpire per i killer che affiancarono la sua auto in corsa facendo partire i primi colpi contro l’auto e che lo costrinsero a inchiodare per poi scendere dalla vettura e tentare una disperata quanto inutile fuga nei boschi vicini. Qui fu raggiunto e ucciso brutalmente.

A giungere sul luogo dell’attentato fu proprio Paolo Borsellino che, giunto davanti al cadavere dell’uomo con cui aveva tante volte discusso di casi di mafia, commentò: “Lo hanno braccato come un coniglio, povero Livatino”.

La notizia della sua morte provocò grande scalpore non solo tra i magistrati, che sferrarono pesanti attacchi nei confronti delle Autorità romane colpevoli di non aver messo in atto alcuna misura per proteggere i servitori dello Stato più a rischio, ma anche tra le persone comuni.

Del giudice resta impressa la sua capacità di essere onesto e incorruttibile nell’applicare la legge da un lato, ma profondamente umano dall’altro. Valori che sono arrivati fino a oggi e che devono essere tramandati per la loro importanza, specialmente in una società come quella odierna, in cui si aspira a essere super-uomini, spesso nella straordinarietà mediatica e ipocrita, dimenticando che giganti veri sono coloro che vivono con autenticità, e spesso eroicamente, la propria quotidianità. Grazie al giudice “ragazzino” per avercelo ricordato .

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