«Mi sono dimesso per portare il mio granellino di sabbia sulla strada del cambiamento»
LA LEZIONE DI “MANI PULITE”

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“La giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il perché delle regole. Se non lo comprendono tendono a eludere le norme, quando le vedono faticose e a violarle, quando non rispondono alla loro volontà. Perché la giustizia funzioni è necessario che cambi questo rapporto” (Gherardo Colombo, Sulle regole).

Colombo a colloquio con i ragazzi delle medie nella mattinata
Colombo a colloquio con i ragazzi delle medie nella mattinata

TODI – Il 30 maggio scorso, su iniziativa del Rotary e dell’Associazione Ex Allievi del Liceo, Gherardo Colombo ha tenuto una conferenza nella Sala del Consiglio di Todi. Una figura, quella dell’ex magistrato, conosciuta in tutta Italia grazie alle importanti inchieste di cui si è occupato nel corso della sua carriera: l’omicidio Ambrosoli, i fondi neri dell’IRI e l’inchiesta sulla P2, fino ad arrivare a quella più eclatante, “Mani pulite” o “Tangentopoli”. Lasciata la carriera di magistrato nel 2007, dato che non riteneva più utile il suo operato, Colombo si è occupato del dialogo con i giovani, i primi da cui partire per sensibilizzare la società al rispetto degli altri e della legalità. Da questa idea, nel 2011, è nata l’associazione “Sulle regole”, che è cresciuta negli anni nel numero di soci ed ha raggiunto sempre più città, comuni e regioni, e che nel 2014 è diventata Associazione di Promozione Sociale. Nel corso della giornata, peraltro molto intensa, Gherardo Colombo ha incontrato gli studenti delle classi terze della scuola media e poi si è recato in visita alla comunità di San Faustino a Massa Martana. Prima dell’inizio della conferenza aperta alla cittadinanza, nel pomeriggio, lo abbiamo avvicinato per rivolgergli alcune domande.

Qual è la sua idea di giustizia?

Gherardo Colombo in visita alla comunità di San Faustino a Massa Martana
Gherardo Colombo in visita alla comunità di San Faustino a Massa Martana

«La mia idea di giustizia coincide con quella della Costituzione: la giustizia è il riconoscimento della dignità, pari a quella degli altri, di modo che ciascuno abbia la possibilità di realizzarsi. Ognuno è importante tanto quanto gli altri, ragion per cui le differenze non sono causa di discriminazione. Questa, se ci pensiamo, è un’idea nuova perché in Italia le differenze stesse di razza, pensiero, lingua, religione, sesso erano causa di discriminazione: per esempio, fino al 1945 i maschi contavano di più delle donne in quanto queste ultime non potevano votare. Solo nel 1963 la donna viene ammessa in magistratura e dal 1975 non è più sottoposta al marito, eppure ancora oggi coltiviamo tanti fattori discriminanti legati ai diritti delle donne, al censo, alla religione e così via. Il pensiero è più forte della legge».

Qual è l’eredità di “Mani pulite”? Ha cambiato il modo di fare giustizia in Italia?

Intervista a Gherardo Colombo
Intervista a Gherardo Colombo

«La notizia che ha dato inizio all’indagine è stato l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulsio, colto in flagrante mentre intascava una tangente dall’imprenditore monzese Luca Magni che, stanco di pagare, lo aveva denunciato chiedendo aiuto alle forze dell’ordine. Da quel momento si acquisiscono carte, si interrogano le persone, si scopre che i soldi erano stati presi da altre parti. Viene alla luce un “sistema” di corruzione ben più vasto di quello che potevamo immaginare e “Mani pulite” sta sulle prime pagine di tutti i giornali per due anni e mezzo ma finisce con risultati relativi. Cambiano le leggi, i cittadini remano contro, di condanne alla fine non ce ne sono tantissime. I primi processi si concludono con percentuali molto elevate (il Presidente della Repubblica Scalfaro nel messaggio di fine anno definisce l’inchiesta un “tintinnar di manette”, criticando l’uso, a suo avviso eccessivo, della carcerazione preventiva) ma poi, cambiando le leggi, diventa difficile arrivare a dimostrare la responsabilità delle persone e si assolve perché il fatto non è più previsto. Via via che le indagini proseguivano, inoltre, le prove ci portavano verso una corruzione spicciola. Siccome le prove si acquisiscono attraverso dichiarazioni o documenti, le bocche si sono cucite, i documenti sono spariti e “Mani Pulite” è finita. Ciò che ne resta è la prova scientifica che un fenomeno di trasgressività così diffuso capillarmente e articolatamente come la corruzione non può essere affrontato attraverso un processo o un’indagine penale».

Spostando l’analisi sul piano della sanzione conseguente alla violazione delle regole, qual è il suo pensiero? Lei ha indagato nuovi concetti e nuove pratiche di giustizia… 

«Sì, dalla cosiddetta giustizia riparativa al cosiddetto perdono responsabile, ossia rieducare i condannati al bene attraverso il male che hanno commesso con il loro reinserimento all’interno della società. Quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. La gran parte dei condannati a pene carcerarie torna a delinquere e non viene riabilitata, come prescrive la Costituzione, ma semplicemente repressa. Se il carcere, dunque, non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne, sto davvero esercitando giustizia? È possibile pensare a forme diverse di sanzione, che coinvolgano vittime e condannati in un processo di concreta responsabilizzazione»?

Conferenza delle 18 per la cittadinanza
Conferenza delle 18:00 per la cittadinanza

Perché è tanto importante educare alla legalità? Cosa la spinge a dedicare così tanto tempo per raccontare quello in cui crede?

«Ho fatto il magistrato per oltre trentatré anni. Per quanto ci si potesse impegnare, è sempre stato impossibile far funzionare la giustizia in modo perlomeno accettabile. Che la giustizia funzioni male è talmente evidente che, probabilmente, questa è l’unica cosa sulla quale sono d’accordo tutti gli italiani. Constatando tutto ciò, è progressivamente maturata in me la convinzione che per far funzionare la giustizia fosse necessaria una profonda riflessione sulla relazione tra i cittadini e le regole. La giustizia non può funzionare se i cittadini non hanno un buon rapporto con le regole. Potevo continuare a fare il magistrato per altri quattordici anni, quando mi sono dimesso, il 1° giugno 2007: ho deciso di smettere e di dedicarmi alla riflessione sulle regole proprio perché la ritengo indispensabile per il funzionamento della giustizia».

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