Road to Slovenia

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(O l’esperienza del proprio limite…)

18 ottobre 2023, mi passa sotto gli occhi una notizia: “in Friuli chiudono i confini con la Slovenia”. A seguito dello scoppio della guerra in Palestina l’Italia ha deciso di ripristinare i controlli alla frontiera per paura di possibili attacchi terroristici. Rimasi scioccato a pensare che quel confine che sembrava esistere solo sulle cartine ora era diventato un’effettiva barriera. Scrivendo questo articolo non voglio stabilire se la decisione di limitare gli spostamenti attraverso il confine sia stata giusta o no,  il mio scopo è solo raccontare come io ho vissuto quella sottile linea di demarcazione, in un mio viaggio di poco precedente, proprio in quelle zone.

Ma andiamo con ordine.

Sono scout ormai da nove anni e la scorsa estate sono stato col mio gruppo in Slovenia. In circa dieci giorni siamo andati da Gorizia, città in Friuli-Venezia Giulia ricca di storia che viene attraversata dalla frontiera con la Slovenia, fino a Bohinj, città turistica che sorge sulle rive di un magnifico lago tra le alpi Giulie quasi al confine con l’Austria.

Partimmo il 25 agosto 2022, sapevo che avremmo faticato molto e mentre aspettavo il treno alla stazione di Terni continuavo a chiedermi se fosse stata una buona idea. per paura di aver dimenticato qualcosa continuavo a controllare lo zaino, c’era tutto il necessario per sopravvivere per più di una settimana: vestiti di ricambio, una tenda da tre persone che poteva accoglierne fino a sette se si è disperati, acqua, abbastanza cibo da non patire la fame fino al prossimo supermercato, una gavetta in metallo, sacco a pelo, materassino di spugna, altre robine; Peso complessivo 18 kg.

Il treno arrivò verso le 21:00 e non appena salii mi resi conto che era assolutamente terrificante; sapevo di non essere lì per riposarmi, avevamo preso dei biglietti più economici per risparmiare, ma quel treno superava ogni mia aspettativa. L’aria condizionata era gelida, probabilmente voleva ricreare un’atmosfera alpina, i sedili erano macchiati di qualche fluido misterioso e gli altri passeggeri erano tutti dei tipi loschi, nessuno sano di mente farebbe un viaggio di otto ore di notte su un treno sprovvisto di cuccette per dormire.

Per ovviare alla scomodità dei sedili ognuno aveva escogitato una qualche sofisticata tecnica di adattamento; qualcuno aveva portato un cuscino gonfiabile, qualcuno si era addormentato con la testa sul tavolo, qualcun altro come me preferiva rimanesse sveglio e ammirare il meraviglioso panorama offerto dal finestrino (tenebre, rotaie e ogni tanto qualche fabbrica).

Arrivammo a Gorizia alle 8:00 freddi come una rosa, qualcuno già avvertiva i primi sintomi del mal di montagna per via dell’eccessiva aria condizionata.

Jacopo, la nostra guida autoctona ci portò al  castello di Gorizia, situato nel punto più alto delle città da cui si possono vedere tutte le campagne circostanti. Guardando in direzione della Slovenia subito provai quel senso di sublime che si sente guardando il mare, era una distesa immensa di valli e monti. 

Dentro di me pensavo che a breve avrei lasciato l’Italia, la mia terra, e sarei passato in Slovenia. E l’avrei fatto in sicurezza, con delle guide, degli amici, e poi, pensavo, la Slovenia è quasi un’altra Italia qui alla frontiera, da entrambe le parti si parlano sia l’Italiano  che lo Sloveno e non sembra affatto di essere in un altro stato.  Insomma, per farla breve, per i successivi otto giorni visitai alcune località meravigliose. Lig, per esempio,  una frazione del piccolo comune di Kanal non molto distante dal fiume Isonzo, che spesso  incrociava il nostro cammino per poi nascondersi tra le valli e risbucare di nuovo:  nonostante la sua bellezza guardandolo era difficile non pensare alla tragica storia che si portava dietro.  E accampatici presso un camposanto del posto, non era raro sulle lapidi trovare nomi sloveni seguiti da cognomi italiani e viceversa. Quando poi da Kanal prendemmo il treno, fuori dal finestrino ci apparvero paesaggi familiari, vedemmo una cascata e tutti, chissà come mai, pensammo subito alle cascate delle Marmore. Bellissima fu la camminata qualche tempo  dopo per Tolmino, e da lì la salita  verso il rifugio KočanaplaniniRazor sul monte Razor: arrivati al rifugio,  dopo una problematica doccia fredda a gettoni ci mettemmo a cantare e si unì a noi anche il cuoco sloveno del posto, un omone dalla barba folta, parlava bene inglese e suonava una chitarra che teneva appesa accanto alla cucina: gli facemmo sentire qualche canto italiano e lui provò a venirci dietro. E così fino all’ora di cena.   E mi sentivo felice, pensai che in fondo tutto il mondo è paese, che gli uomini vivono le stesse emozioni, vedono paesaggi simili a quelli che vedono altri uomini lontani da loro. Vogliono cantare, gli piace bere e mangiare. Pensai che stare insieme , conoscere gente straniera è bello, provare a balbettare un’altra lingua.  E’ un po’ come ritrovare la propria casa, quando questa è lontana. Pensai che i confini forse erano utili, forse non potevano non esserci, ma sentivo che essi sono una realtà burocratica, politica. Che forse il confine lo abbiamo posto perché quel limite è più un nostro limite interiore, quello di non saper vivere in pace gli uni con gli altri.  Gli uomini sono uguali ed è un peccato che quei posti meravigliosi, che quel fiume spettacolare che è l’Isonzo, avessero conosciuto la guerra, il tempo e il luogo in cui gli uomini di nazioni diverse non sono più uguali, non vogliono più provare a parlare  l’uno la lingua dell’altro, né cantare insieme.

Dopo una bella dormita, all’alba  mi preparai per una lunga gita sul Razor.  Ricordo che poco dopo la partenza , ad un tratto alzai lo sguardo e vidi in cima alla montagna una fortezza di cemento, uno scatolone grigio che scrutava dall’alto tutti quelli che osavano avventurarsi sul monte. Il rudere bellico però non era solo, dalle pieghe della roccia sbucavano delle finestrelle nere come migliaia di occhi, una volta che vidi la prima inizia a notarle tutte quante, mi circondavano. Delle feritoie, praticamente. Seguii con lo sguardo l’infinita fila di quelle finestrelle finché non vidi che terminava accanto a me, c’era una porticina buia alla mia sinistra, curioso entrai a vedere; mi trovai davanti un lunghissimo tunnel umido e polveroso che saliva quasi verticalmente lungo il dorso del monte, gocce d’acqua lacrimavano dal soffitto, mi affacciai ad una finestra e vidi i miei compagni che salivano lungo il roccioso fianco della montagna. Pensai che se fossimo stati in guerra e loro fossero stati nemici,  da dentro quella trincea, puntando l’arma a una di quelle feritoie, avrei potuto farne strage.  Uscii pensoso,  in silenzio dalla trincea e ripresi il mio cammino.

Un  paio di giorni dopo, tornati col treno a Gorizia,  scesi alla stazione ci trovammo davanti una piazza che veniva tagliata a metà dal confine. Ancora i confini, pensai. 

E  con un singolo, minuscolo passo lo attraversai, e mi ritrovai in Italia.

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