SHEIN: LUCI E OMBRE DEL RE DEL FAST FASHION

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To Shein or not to Shein? Questo è l’amletico dilemma che ha per protagonista il brand del momento, sovrano assoluto dello shopping on line, amatissimo dalle adolescenti e non solo, croce e delizia della stampa internazionale che oscilla da mesi tra una cauta esaltazione o una stroncatura impietosa.

Parola d’ordine: “Stilose a poco prezzo”, Shein fa il suo ingresso nel ‘mare magnum’ della rete nel 2008, creato dal geniale Chris Xu, imprenditore cinese che sa muoversi con disinvoltura nel marketing degli abiti da sposa e che in brevissimo tempo arriva a commercializzare con più di duecento Paesi, proponendo un abbigliamento femminile giovane a prezzi molto contenuti. I modelli proposti riscuotono da subito un grande successo, soprattutto nella fascia di età compresa tra i tredici e i diciannove anni, perché cavalcano l’onda della moda permettendo di riempire gli armadi di tutti i must have del momento. La pubblicità martellante sui social network arriva come la ciliegina sulla torta: le vendite raddoppiano in poco tempo. All’orizzonte però iniziano a comparire le prime ombre: dagli attivisti di Greenpeace piovono accuse di sfruttamento e di inquinamento, alle quali si aggiunge poi l’insinuazione che nei capi di abbigliamento si nascondano sostanze nocive. Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia, attacca il colosso del fast fashion rivelando che, in base ad indagini molto scrupolose, è emerso come  Shein sia “incompatibile con un futuro rispettoso del pianeta e dei suoi abitanti”, a causa dell’impatto spaventoso che l’industria della moda ha sull’ambiente, emettendo fino al 10 per cento delle emissioni di gas serra, contenendo i prodotti incriminati insospettabili, sovrabbondanza di materie plastiche e consumando quantità di petrolio eccessive. Infine, gli abiti conterrebbero sostanze chimiche pericolose (ftalati, formaldeide e nichel nello specifico). Al coro dei detrattori si unisce la voce di Channel 4 che conduce un’inchiesta sulle condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare gli operai nelle fabbriche cinesi: a fronte dei 500 capi prodotti giornalmente, con turni da diciotto ore e una paga di soli quattro centesimi a capo, il personale ha diritto ad un unico giorno di riposo al mese e subisce detrazioni dallo stipendio se commette degli errori nel confezionamento del prodotto. Chiamata in causa, Shein si difende affermando di non conoscere la triste realtà delle fabbriche che producono la merce e che vigilerà affinché i diritti umani non vengano più violati. La catena di abbigliamento cinese, che al momento vale circa 100 miliardi di dollari, nonostante la macchia nera sulla propria reputazione, non sembra subire flessioni nelle vendite. La generazione Z è con lei, nessun dubbio amletico. Eppure il dubbio in chi scrive rimane, posto che molti brand confezionano i loro abiti in Cina (forse alle medesime condizioni?): vale più un abito di buona fattura, che sopravvive all’inclemenza del tempo e ai numerosi lavaggi della lavatrice, che non ci intossica e non inquina o molti abiti che ci permettono sì, di cambiare spesso il nostro look, ma che dopo un lavaggio possiamo utilizzare per vestire le Barbie e che nascondono tali torbidi segreti?

Maria Elisa Stagnari

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