RACCONTO DI PRIMAVERA

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[di Fanny Taddeo, 2BL a.s. 2017/2018]

“Camy, mamma mia che noia questa matematica, all’ultima ora poi, ma tu stai seguendo? Ci stai capendo qualcosa?” “Bea, ovviamente no, ma che domande fai? Sono le una meno cinque e io al posto dei numeri vedo le pennette al sugo”. “Camilla e Beatrice, per favore, potete smetterla di parlare tra di voi? Siamo stanchi tutti, e io non ho la minima voglia di urlare sopra le vostre voci”. Così incalzava la professoressa, una donna bassina, mora, un viso delicato ma la voce e i modi un po’ meno; certo, pensavo, per aver preso una laurea in matematica doveva essere una piovra. Sì, sembra strano paragonarla ad una piovra, ma è l’animale che per eccellenza si attacca alle prede e non le molla e da recenti ricerche è emerso che è anche uno tra i più intelligenti animali che popolano il mare (e per studiare matematica tanto scema non puoi essere).

Finalmente la campanella, anche questa giornata scolastica è finita, si va a casa e spero di pranzare prima delle 14:30 che poi inizia il mio programma preferito su canale cinque e non posso assolutamente perderlo. Questi erano i miei pensieri, magari un po’ poveri di contenuto, ma in fondo ero solo una ragazza di 14 anni. Era una calda giornata dei primi di giugno, l’anno scolastico stava per finire e io ero appena uscita da scuola per tornare a casa; a casa non mi aspettava quasi mai nessuno, i miei erano divorziati e sempre indaffarati con il lavoro, mia nonna era
anziana e stanca ormai di aspettarmi fino alle 14:00 o 14:30, così tornavo e pranzavo da sola, ma alla fine non ero così triste, il mio carattere solare mi aiutava a non sentire la solitudine.
Dopo aver trascorso il pomeriggio tra i libri e la tv, decisi di andare a correre, il mio corpo mi piaceva a tratti, ero formosa, avevo un seno abbondante e fianchi accoglienti e volevo disperatamente toglierli, la corsa poteva essere un buon rimedio
(così tutti dicevano). Così, dopo aver preso le cuffiette, uscii di casa e iniziai a correre; ad essere sinceri correvo e passeggiavo, l’aria era calda e mi piaceva molto stare all’aperto. Ero solita passare per le strade bianche, piuttosto che per quelle asfaltate dove le macchine sfrecciavano veloci (tanto il paesino era tranquillo ed ero sicura di non correre nessun pericolo). Mentre concludevo il mio percorso di fitness, ormai alle 19:30 inoltrate, vidi arrivare nella mia stessa direzione un furgoncino bianco, anonimo, che molto probabilmente aveva sbagliato direzione. Si affiancò a me, si fermò e l’uomo che era alla guida aprì il finestrino per chiedermi indicazioni, parlava di una strada che non conoscevo e, dato che non sapevo rispondergli, decise di scendere dal veicolo per mostrarmi la mappa cartacea che aveva tra le mani, ma io vidi che quella strada non era neanche sulla mappa. In realtà quella strada non esisteva e quello sconosciuto aveva solo inventato una scusa come un’altra per avvicinarsi a me? Mi impaurii e provai ad allontanarmi da quell’uomo, ma ormai era troppo tardi. Venni subito afferrata per un braccio e mi ritrovai per terra, bloccata dal peso del corpo di quell’essere che non avevo mai visto prima e che, evidentemente, aveva deciso di divertirsi con me. Le sue mani erano fredde, stavano portando l’inverno sopra di me e non riuscivo a liberarmi, non riuscivo ad urlare, non ero riuscita a scappare e forse non sarei riuscita a perdonarmi. Il sorriso dal volto non me lo aveva mai tolto nessuno, né la separazione dei miei genitori né la solitudine né i
piccoli problemi di cuore, tranne lui; lui ci stava riuscendo. Strappò via quei vestiti che avevo ed iniziò a toccarmi compiaciuto del fatto che ci fosse della carne tenera da toccare, non solo era tenera, era anche sudata e questo sembrava eccitarlo ancora di più. Mi toccava e si strusciava, sì, si strusciava come un verme perché quell’essere di umano non aveva più nulla, neanche il respiro che era diventato forte, violento, assomigliava a quello di un cavallo al termine della corsa in velocità. Sentivo le mani dappertutto, sul viso, sul collo, sul seno, sembrava volesse strapparmi tutta la carne che avevo, ma mi ripetevo che non tutto era ancora perduto, non tutto era ancora così tragico e che magari si sarebbe fermato. Tutte le mie speranze furono disattese
quando, pochi secondi dopo, anche la mia biancheria intima fu gettata a terra vicino ad un fossetto ricoperto di vegetazione. Avevo paura, piangevo e tremavo, sentivo vergogna e sentii poco dopo anche dolore, un dolore forte, un dolore rabbioso, il mio corpo respingeva ciò che non voleva, ma senza successo. Era fatta, avevo perso tutto, il mio sorriso e la mia spensieratezza. Non so esattamente quanto durò quel momento, ma lo percepii come eterno e come l’inizio di un cambiamento che non potevo bloccare; in meno di due ore la mia vita era completamente cambiata, era stata completamente stravolta, era stata distrutta.
La bestia si rivestì, mi sorrise e se ne andò e io ancora incredula, ma con l’adrenalina che il corpo autonomamente produceva, riuscii a vestirmi e ad andarmene. Da quel giorno nulla sarebbe stato più come prima. Ero stata sfregiata nel corpo e nell’anima da uno sconosciuto e tanta era la vergogna che avevo pensato di non dire nulla a nessuno, di nascondermi dentro quel segreto. Così tornai a casa, feci una lunghissima doccia, ma poi capii che avevo bisogno di aiuto, che dovevo liberarmi di tutto e decisi di raccontare ai miei genitori quello che mi era accaduto. Seguirono giorni terribili, mio padre aveva tanta rabbia e sperava ogni giorno che quel porco morisse, mia madre piangeva e il paese parlava di me; fino a quel momento non era mai successo nulla, dicevano, e in fondo, dove andavi a correre da sola con il top?!
Semplice: la colpa era diventata la mia. Denunce, riconoscimenti, psicologi, visite mediche accertarono la violenza subita e accertarono anche un’altra triste realtà: ero incinta. A casa guardavo sempre un programma su mtv, 14 anni incinta, forse potevo iscrivermi anche io, avevo tutti i requisiti, anzi ne avevo uno in più, a mettermi incinta era stata la violenza non un uomo al quale mi ero concessa per amore. Piansi, piansi giorno e notte, non riuscivo più ad uscire di casa e non sapevo minimamente quello che dovevo fare per me e per questa creatura mezza uomo e mezza bestia.
Spesso Camilla, in quel periodo della gravidanza, veniva a trovarmi insieme alla sua famiglia e mia madre le apriva la porta e le faceva strada fino al salotto,dove io, distesa sul divano, la supplicavo con il mio sguardo di portarmi via da quella situazione, di strapparmi da quel corpo. Camilla mi ricordava i tempi passati, quelli in cui ero stata una ragazza che odiava la matematica, spensierata e sempre sorridente e poi appoggiava la sua mano calda sul mio ventre, si avvicinava con la bocca al mio
orecchio e mi sussurrava: “ CORAGGIO, ANDRA’ TUTTO BENE”. Non fu facile fare una scelta, tutti i consigli mi sembravano inutili, ma alla fine decisi di tenere quel bambino e i miei genitori non si opposero alla mia decisione.
Non sto qui a raccontare quanto furono difficili i mesi successivi fino al parto, mi chiedevo spesso come avrei potuto amare un figlio nato in circostanze così terribili, ma io amavo i bambini, da sempre sentivo un legame con loro ed ero una che quando prendeva una decisione non tornava più indietro. Mi feci coraggio, come mi aveva sussurrato la mia amica, e decisi che ce l’avrei fatta. A primavera nacque Massimo, un nome non casuale perché volevo che lui dalla vita ottenesse quello che io non
avevo avuto, il massimo. Un nome, un augurio. Lo amai subito, immensamente, e, mentre lo tenevo fra le braccia, fu come se l’orrore subito non mi interessasse più: lui era solo mio figlio, era solo il mio bambino, era il mio sole. Era così piccolo e innocente e i suoi occhi sembravano volermi ringraziare per il regalo che gli avevo fatto dandogli l’opportunità di nascere. Con tutto ciò non voglio dire che la gravidanza dopo lo stupro era stata un dono, ma lo era e lo è tuttora mio figlio, nonostante tutto.
Oggi sento la mancanza di molte cose, di esperienze, di stupidaggini, di avventure, ma una cosa io l’ho capita: quella primavera mi aveva portato un frutto e il frutto della violenza non sempre è violenza, a volte è amore.

Con questo racconto Fanny Taddeo della 2BL ha vinto il secondo premio- categoria scuole superiori- al concorso di poesia e narrativa “Saverio Marinelli” promosso dall’Unitre di San Venanzo. La cerimonia di premiazione è avvenuta sabato 26 maggio al Centro- Congressi “La Serra” del comune. Vi hanno aderito scuole di ogni ordine e grado di tutta Italia. 244 sono stati gli elaborati pervenuti nel ricordo dell’amato Saverio, il ragazzo di San Venanzo che tanto amava la vita,  morto il 23 giugno 2014 dopo aver convissuto per tanti anni con una terribile malattia, primo al mondo a ricevere un cuore artificiale.

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