
La distinzione grammaticale tra maschile e femminile è una caratteristica fondamentale delle lingue romanze, derivata dal latino, in cui il genere aveva una funzione categorizzante. Tuttavia, in molte lingue del mondo, il genere grammaticale non esiste (come in turco o cinese) o è stato progressivamente eliminato (come in inglese, che conserva tracce solo nei pronomi personali). Questo dimostra che il genere grammaticale non è una necessità intrinseca del linguaggio umano, bensì una convenzione che varia culturalmente.
In italiano, il maschile universale è stato tradizionalmente utilizzato come “genere neutro” per indicare gruppi misti o soggetti non specificati. Ad esempio, dire gli italiani per indicare tutta la popolazione italiana sottintende una visione in cui il maschile include e sovrasta il femminile, rendendolo superfluo. Questo uso, apparentemente neutro, è stato spesso criticato per il suo potenziale esclusivo, che rafforza l’invisibilità delle donne e delle identità non binarie.
La lingua, quindi, non è solo un mezzo di comunicazione: è anche un riflesso delle strutture culturali, sociali e politiche di una società. La grammatica dell’italiano, come quella di molte altre lingue indoeuropee, si fonda su una marcata distinzione di genere, con il maschile che funge da genere “non marcato” o universale. Tuttavia, negli ultimi decenni, la crescente consapevolezza delle questioni di genere e l’emergere di identità non binarie hanno portato alla ribalta interrogativi profondi: questa centralità del maschile è una caratteristica strutturale della lingua o è il prodotto di una cultura che storicamente ha privilegiato un punto di vista androcentrico?
La risposta a questa domanda non è semplice e richiede una riflessione che intrecci linguistica, storia, cultura e politica.
L’evoluzione della lingua italiana, in particolare per quanto riguarda la rappresentazione dei generi, è una questione che oggi divide linguisti, studiosi e il pubblico più ampio. Da un lato, l’italiano presenta regole grammaticali che favoriscono l’uso del maschile come genere “neutro” o sovraesteso, una caratteristica che, secondo molti, riflette la struttura culturale tradizionale in cui la lingua si è sviluppata. Dall’altro, movimenti antisessisti e istanze di inclusione sociale e linguistica stanno portando all’attenzione soluzioni alternative, come l’uso della “U”, dell’asterisco e dello schwa, per rappresentare tutte le persone a prescindere dal genere.
Il dibattito sull’inclusività di genere nella lingua italiana non può essere risolto attraverso soluzioni semplicistiche o univoche. La proposta di un modello plurale e contestuale rappresenta un tentativo di mediare tra le esigenze di innovazione e la necessità di rispettare la complessità della lingua e della società.
La lingua è uno strumento dinamico, capace di adattarsi ai cambiamenti culturali e sociali. Abbracciare questa dinamicità, anziché resistervi, significa riconoscere il potere trasformativo del linguaggio e il suo ruolo fondamentale nella costruzione di una società più giusta e inclusiva.
La centralità del maschile: un aspetto linguistico o culturale?
Come ogni intervento sulla lingua, le proposte di inclusività non sono esenti da resistenze. Da un lato, l’italiano è una lingua fortemente normata, regolata da tradizioni grammaticali consolidate e da istituzioni come l’Accademia della Crusca, che tendono a privilegiare la stabilità linguistica. Dall’altro, vi è una diffusa percezione della lingua come parte integrante dell’identità nazionale, il che porta molti a considerare le modifiche come una minaccia alla cultura.
Tuttavia, la storia dimostra che le lingue sono sistemi dinamici, soggetti a evoluzioni costanti. Termini, costrutti e persino strutture grammaticali un tempo considerate immutabili sono state modificate nel corso dei secoli. Basti pensare all’introduzione del lei come forma di cortesia, che inizialmente fu oggetto di dibattiti accesi ma è oggi universalmente accettata.
La predominanza del genere maschile, dunque, non sembra tanto una necessità intrinseca della lingua quanto piuttosto una testimonianza delle strutture sociali che hanno per lungo tempo subordinato la donna all’uomo, riducendo l’universo femminile a una posizione accessoria. Lo stesso Vocabolario degli Accademici della Crusca, nella sua prima edizione del 1612, definisce l’uomo come “animale ragionevole” e attribuisce alla parola “donna” una definizione subordinata, riservata a quella che “abbia o abbia avuto marito”.
A tal proposito negli anni Ottanta, il movimento femminista e le campagne antisessiste in Italia hanno portato a un’importante riflessione sulle radici sessiste del linguaggio, culminata nel lavoro pionieristico di Alma Sabatini. Nel suo saggio del 1987, Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Sabatini suggerisce che evitare il maschile generico è un passo fondamentale per la creazione di una lingua inclusiva. Le sue proposte, ancora attuali, vanno dalla sostituzione di “diritti dell’uomo” con “diritti della persona”, fino all’adozione di forme femminili per le professioni quando ci si riferisce a una donna (ad esempio “l’avvocata” invece di “l’avvocato” per indicare una professionista donna).
Questi suggerimenti mirano a riconoscere il valore del genere femminile nella lingua e a eliminare la rappresentazione della donna come una variante o estensione del maschile. Sebbene queste modifiche siano state parzialmente accolte, rimane controverso l’uso delle forme femminili di alcune professioni, come “ministra” o “sindaca,” spesso percepite come “innaturali” semplicemente perché non sono state storicamente utilizzate. Questo giudizio, tuttavia, può riflettere più un’abitudine che un’impossibilità linguistica, suggerendo che l’accettazione di queste nuove forme richieda semplicemente tempo e frequenza d’uso.
Alternative inclusive o soluzioni inapplicabili?
L’espansione del dibattito sulla rappresentazione dei generi, soprattutto con la crescente sensibilità nei confronti della comunità LGBTQIA+, ha portato a ulteriori proposte per una lingua inclusiva. Alcuni propongono infatti di sostituire le desinenze in -o o -a con forme più neutrali, come la “U,” l’asterisco (*) o lo schwa (ə), per includere persone che non si identificano nel binarismo di genere.
La “U,” benché sia una vocale italiana, si presenta come una forzatura nelle parole declinate. L’asterisco, invece, è solo un simbolo grafico, inservibile nella lingua parlata. Lo schwa, pur rispondendo meglio all’esigenza di rappresentare il neutro, pone altri problemi: il suono schwa non esiste nella fonologia dell’italiano standard e risulta difficile da pronunciare per molti. Queste proposte, quindi, pur apprezzabili per il loro intento di inclusività, non sono applicabili senza compromessi sostanziali.
Lo sdoppiamento: un compromesso tra inclusione e praticità
La lingua non è solo un sistema di regole: è un luogo di potere. Le scelte linguistiche riflettono le gerarchie sociali e, al contempo, contribuiscono a plasmarle. Adottare un linguaggio inclusivo significa riconoscere e valorizzare identità che storicamente sono state marginalizzate o invisibilizzate.
Tuttavia, è fondamentale sottolineare che il cambiamento linguistico deve essere accompagnato da un’evoluzione culturale. Una grammatica più inclusiva avrà senso solo se sostenuta da una reale trasformazione delle pratiche sociali e delle strutture di potere. La lingua riflette la società, ma non la determina da sola: un cambiamento autentico richiede che inclusività e rispetto diventino parte integrante del tessuto culturale, oltre che del vocabolario.
La gestione della pluralità potrebbe generare incertezza o confusione nei parlanti, soprattutto nei contesti formali. Inoltre, l’adozione di nuove forme richiede un processo educativo ampio e capillare, che potrebbe incontrare resistenze culturali e istituzionali.
Per superare queste difficoltà, è necessario un impegno coordinato da parte di istituzioni accademiche, enti pubblici e movimenti sociali. L’obiettivo non è solo quello di innovare la lingua, ma di trasformare la società in modo che il rispetto per tutte le identità diventi un valore condiviso.
In definitiva, la lingua italiana si trova a un bivio: il rispetto delle regole grammaticali tradizionali si scontra con la necessità di rappresentare una realtà sociale sempre più pluralista e attenta alla diversità. È possibile che una sintesi tra tradizione e inclusione emerga nel tempo, con nuove forme che, lungi dal sostituire il maschile generico, affiancheranno o arricchiranno il repertorio linguistico dell’italiano, rispondendo all’esigenza di una rappresentazione autentica e rispettosa di tutte le persone.
Un compromesso potrebbe basarsi su un modello ibrido che valorizzi la pluralità delle opzioni linguistiche, adattandole ai contesti comunicativi specifici. Nei contesti formali e istituzionali, il doppio genere e l’uso di formule neutre garantiscono chiarezza e inclusività, mentre nei contesti informali si potrebbe sperimentare con soluzioni più innovative, come lo schwa o la “U,” a seconda delle preferenze dei parlanti. Questo approccio pluralistico eviterebbe un’imposizione dall’alto e riconoscerebbe la necessità di un cambiamento linguistico che emerga dalla pratica quotidiana e dall’evoluzione culturale.

In questa prospettiva, il linguaggio inclusivo non deve essere visto come un obbligo rigido, ma come uno strumento dinamico, capace di adattarsi progressivamente alle esigenze di una società sempre più attenta alla diversità e alla rappresentazione equa di tutte le identità. Ciò richiede un impegno congiunto da parte delle istituzioni linguistiche, dei movimenti sociali e delle comunità di parlanti, accompagnato da un’educazione linguistica che formi le nuove generazioni alla consapevolezza e al rispetto delle differenze.
Come mostrano i numerosi approcci proposti – dallo schwa al doppio genere, dall’asterisco alla “U” – non esiste una soluzione unica e universale per risolvere il problema della neutralità di genere. Tuttavia, ciò non implica l’impossibilità di un compromesso, ma richiede piuttosto un approccio che integri flessibilità e rispetto per la complessità culturale e linguistica dell’italiano.
In conclusione, il compromesso non consiste nell’abbandonare la tradizione, ma nell’affiancarla con nuove pratiche che arricchiscano il repertorio linguistico senza compromettere la funzione essenziale della lingua: quella di comunicare in modo efficace. L’italiano, come ogni lingua viva, è un sistema aperto, capace di evolversi nel tempo. La sfida del linguaggio inclusivo, pertanto, non è una minaccia alla stabilità linguistica, ma un’opportunità per costruire un repertorio che rifletta più fedelmente la complessità e la pluralità della società contemporanea. Questo equilibrio, per quanto ambizioso, rappresenta una via percorribile per garantire una lingua che sia non solo uno strumento di comunicazione, ma anche un mezzo per promuovere uguaglianza e inclusione.
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