AUTOFOCUS

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«Con la macchina sul cavalletto e io di fianco con lo scatto flessibile in mano, non mi nascondo dietro la macchina e le persone non guardano più me. Chiedo loro di guardare l’obiettivo come fosse uno specchio e poi aspetto…Perché col tempo, con l’attesa, cadono le maschere e quindi si ha la possibilità di raggiungere un po’ più l’intimità della persona che sta di fronte».

GEORGE TATGE

Foto di Marta Mantilacci

TODI – George Tatge è ormai un fotografo di fama internazionale, giunto in Italia nel 1973, e ora apre qui a Todi le porte di una piacevole e nuovissima mostra, collocata a Palazzo del Vignola e alla Sala delle Pietre: “Enigmi – Paesaggi senza tempo” e “Gli occhi della città – Ritratti di ieri e oggi”.
Attualmente residente a Firenze, da anni insegna presso la Fondazione Studio Marangoni, leader nella formazione della cultura fotografica.
Ha vissuto per ben 12 anni nella nostra cittadina in collina, amata da noi tuderti e apprezzata da artisti di fama mondiale: troveremo in questa sorprendente mostra volti del passato e del presente, magari di persone che conosciamo o amiamo, cogliendo nel profondo la metafisica di questo maestro. Una vera indagine interiore, una “messa a fuoco” personale ed intima. “Fermare un momento” è un’arte calata nello stupore, nell’attesa, nella ricerca di sé. Come afferma il poeta Cesare Pavese:

«Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi…»

Cosa e dove ha studiato?

«Ho studiato letteratura inglese nel Wisconsin, negli Stati Uniti. La fotografia era un corso che veniva offerto, allora mi sono iscritto per farne uno introduttivo e poi mi è piaciuto tanto; il mio rapporto con il professor Michael Simon, ebreo ungherese, era molto buono, per cui sono andato avanti a fare corsi privati con lui, una sorta di mentore».

Da giovane che rapporto aveva con l’arte? 

«Mi piaceva molto, anche perché avevo due genitori particolarmente innamorati dell’arte. Mia mamma, in particolare, italiana, ha trasmesso l’amore per essa anche a mio padre che era più un amante della musica, ma poi sono diventati tutti e due ossessionati. Ci trascinavano, a me e alle mie quattro sorelle, in tutti i musei del mondo, quando viaggiavamo; abbiamo vissuto tra la Turchia, il Medio Oriente e Londra. Ecco è stato dall’inizio molto intenso, molto bello».

Su cosa si basa per scattare le sue fotografie?

«La risposta istintiva a quello che è di fronte a me. Può essere un fattore di linee di luce, più che altro con il bianco e nero, però deve scaturire qualcosa nel mio cervello, deve attrarmi qualcosa nella sua conformazione per qualche motivo. Se sto fotografando a colori, cosa che ho iniziato a fare circa sette anni fa, mi baso sempre su una cromia, un colore particolare che mi attrae. Non amo molto i progetti, proprio perché mi piace essere pronto a recepire qualsiasi cosa che mi si presenta. Se tu hai un progetto in testa, tutto il resto viene escluso automaticamente, perché sei concentrato solo su quello, per cui sei cieco di fronte a qualsiasi cosa possa apparire».

Qual è, se c’è, la bellezza che lei cattura nei soggetti fotografati?

«A me non interessa esplicitamente la bellezza, ma l’ambiguità, il mistero, le cose che fanno pensare la persona che guarda l’immagine. Io non sono un fotografo di documenti, ma di metafore. Cerco di esprimere qualcosa di più profondo, più sotto la superficie. Per quello ho chiamato la mostra qui a Todi “Enigmi”: è un’espressione che usò molto perspicacemente De Chirico per descrivere la sua sensazione quando accolse per la prima volta la metafisica, che non riuscì a spiegarsi, per cui lo chiamò enigma».

Cosa può dirci del suo primo libro, del 1984, “Perugia terra vecchia terra nuova”?

«È molto vecchio, graficamente parlando, però è molto importante per me, perché la fotografia di copertina, l’arco etrusco, è la prima fotografia di architettura che abbia mai fatto. Sono molto fortunato nella realizzazione, anche perché avevo visto il soggetto il giorno prima e il sole non era nell’angolo che volevo, quindi sono tornato ventiquattr’ore dopo e ho trovato esattamente la stessa nebbiolina di novembre, che ha fatto sì che quella foto convincesse coloro che volevano darmi il contratto per il libro. Ancora più importante è il rapporto di lavoro che avevo con Roberto Abbondanza, professore all’Università di Perugia e presidente del Consiglio regionale umbro, un carissimo amico, con cui ho scritto anche il libro di Terni. È stato un lavoro di grande collaborazione».

«A me piace molto anche confrontare il passaggio del tempo negli oggetti, come la natura riesce a riacquistare la proprietà sul mondo, sulle cose che l’uomo costruisce».

GEORGE TATGE

Lei pensa che la fotografia abbia un futuro, con il costante sviluppo della tecnologia e in particolar modo degli smartphone, che soffocano sempre più settori come la fotografia e la stampa?

«Sicuramente sta cambiando, diventa sempre più difficile fare fotografie con pellicola e ha senso farlo solo con formati più grandi, anche perché il digitale ha superato la qualità di gran lunga del formato 24×36. Io lo faccio ancora perché mi piace il processo creativo della pellicola, questa macchina fotografica la uso per le mie creazioni al 90%. Non sono molto capace di prevedere il futuro. Chi avrebbe mai pensato, vent’anni fa, cosa sarebbe diventata la fotografia? La semplicità di trasformarla, di modificarla, la possibilità di creare cose dal nulla, diventa un’altra cosa. Secondo me la fotografia è quasi morta, perché io considero la fotografia quello che io faccio, quello che ho fatto nella mia vita. Quelli che lavorano oggigiorno, secondo me, devono chiamarsi Digital Artists o Digital Photographers ed è un altro approccio. Non dico che uno è meglio dell’altro, dico che sono troppo diversi, sono molto diversi».

Consiglierebbe oggi a un giovane di fare il fotografo?

«Sì, lo consiglierei sempre, perché se si ha la fortuna di riuscirci è una delle professioni più belle al mondo, perché si è costantemente a contatto con realtà nuove. Appena finito il lavoro per la città di Terni, ogni giorno ero in un posto diverso a conoscere persone diverse, che mi mostravano cose diverse. È un mestiere bellissimo, quindi è un invito a imparare, a crescere, tanto, ogni giorno; conosci una persona nuova, qualche cosa di nuovo e crei qualche cosa, ogni giorno, ed è bellissimo. Però penso che sarà sempre più difficile affermarsi, perché tutti ormai si considerano fotografi e più andiamo avanti, più sento l’incapacità delle persone di distinguere».

Quale luogo le piace di più fotografare e perché?

«Non ho un luogo preciso. Curiosamente, infatti è sempre quella la decisione, se non ho un progetto devo avere almeno un luogo dove vado a cercare le fotografie, e non certo il centro di Firenze, dove abito adesso, perché è troppo museificata, ferma così da secoli. Vado spesso a Prato, vado ogni tanto a Poggibonsi, di cui mi fa ridere solo il nome, luoghi che sono tra il passato, il presente e il futuro, dove vedi delle cose che cambiano. Sono le periferie che mi interessano, non più la natura verginale, non vado nei boschi a fotografare, l’ho già fatto; quindi è finito quel capitolo della mia carriera, mi interessa molto di più il rapporto dell’uomo con il mondo, piuttosto che la natura pura».

«Una delle mie foto preferite è quella della copertina, di Nello Passeri, questo contadino elegantissimo, che sembra stia per sfilare per Armani».

GEORGE TATGE

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