MAFIA, SISTEMA POLITICO CRIMINALE: INTERVISTA A PIPPO DI VITA.

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Il 19 marzo 2021 il C.E.L.M., Comitato Europeo Legalità e Memoria, ha promosso un’importante iniziativa online che prevedeva svariate attività, dall’intervento di alcune autorità dello Stato e di familiari dei caduti per mafia, fino ad arrivare alla inaugurazione della lapide dedicata alle vittime innocenti delle mafie e posta nei pressi dell’’IIS “M. Polo – R. Bonghi”di Assisi.

In primo piano Pippo di Vita davanti la scena del delitto del Maresciallo Ievolella

Uno dei principali organizzatori di quest’evento è stato Pippo di Vita, Presidente proprio del C.E.L.M., che ha incontrato le classi 3AS, 3BS e 1AC del nostro Istituto raccontando la sua esperienza legata a Cosa Nostra, sia come uomo che si è impegnato a combatterla sia come parente e amico di due importanti figure che sono morte per aver svolto il loro dovere.

“Il padre della mia ex moglie – racconta Di Vita – era Vito Ievolella, Maresciallo Maggiore dei Carabinieri che fece un importante rapporto riguardo alcuni latitanti palermitani e, anche per questo, venne ucciso in un agguato nel settembre del 1981”.

Quando viene ucciso un rappresentante dello Stato che combatte la mafia come suo suocero, le persone vicine se lo aspettano?

“La maggior parte dei servitori dello Stato uccisi ricevono prima minacce e sono pertanto coscienti del pericolo che corrono. Tant’è che persino nel caso di mio suocero, noi famiglia ce lo aspettavamo anche se speravamo non accadesse. So per esperienza personale che anche Rocco Chinnici, magistrato ideatore del Pool Antimafia, era consapevole della possibilità di essere ucciso.

Il giorno successivo al funerale, quando ci stavamo dirigendo da Palermo verso Benevento, dove mio suocero era nato e cresciuto, il giudice Chinnici, che stava tornando da Roma, volle fare una deviazione per incontrarci in un autogrill e salutarci. Una volta sceso dalla macchina di scorta, fece le condoglianze a mia suocera e le disse “adesso tocca a me”. Purtroppo in quel periodo quasi tutte le persone che portavano avanti un impegno contro Cosa Nostra si aspettavano di morire”.

Lei però è stato anche collaboratore di Padre Puglisi, sacerdote ucciso per l’attività che svolgeva con i giovani per sottrarli alla criminalità. Quali differenze si sono percepite tra questi due omicidi che lei ha vissuto da vicino e in che modo ha reagito la società in questi due diversi momenti?

“La differenza è stata enorme poiché mio suocero, Vito Ievolella, fu tra i primi servitori dello Stato a cadere in questa lotta. All’epoca la sensibilità era scarsa e le numerose uccisioni di quegli anni non furono subito considerate come morti di mafia. Quando morì Padre Puglisi invece le cose erano totalmente diverse. Erano già morti Falcone e Borsellino e questo aveva sollevato un’attenzione forte sul tema e c’era una cultura antimafia più sviluppata che si era creata a partire dal 1982 con la morte del generale Dalla Chiesa e proseguita con il Maxiprocesso. Inoltre padre Puglisi non era un uomo delle istituzioni ma di chiesa e quindi la popolazione aveva una sensibilità maggiore nei suoi confronti. Le motivazioni del suo omicidio non furono di stampo giudiziario, come per Ievolella, ma legate al suo lavoro che indirettamente era contro Cosa Nostra, proprio perché voleva salvare i giovani dalla cattiva strada della delinquenza”.

Questi due episodi l’hanno portata a dedicarsi ai temi della legalità e della criminalità organizzata. In base alla sua conoscenza acquisita negli anni da cosa nasce il fenomeno mafioso?

Dopo l’unità d’Italia in svariate zone del Nord e del Sud si sviluppò il brigantaggio come reazione al nuovo Governo nazionale, ma in Sicilia accadde qualcosa di diverso che portò alla nascita della mafia per due motivi: il primo è legato alla Sicilia vista potenzialmente come la regione più ricca d’Italia, specialmente in campo agricolo. Queste ricchezze hanno fatto sì che si creasse un potere come quello del “latifondo”, cioè estensioni immense di terreni governati dai baroni. Questa situazione ha dato forza ai latifondisti in quanto permetteva loro di essere ricchissimi e di detenere talmente tanto potere da dettare legge a chiunque abitasse nelle loro proprietà sconfinate, principalmente contadini. Il secondo motivo è legato al fatto che la Sicilia aveva una produzione massiccia di agrumi, molto richiesti in passato perché prevenivano una malattia chiamata “scorbuto”. Per prevenire che i campi bruciassero per mano di delinquenti e che si registrassero così ingenti danni economici, i baroni chiesero protezione e controllo a campieri e gabellotti, che avevano anche il compito di tenere sotto controllo i contadini. Si creò in questo modo un sistema gerarchico chiuso dove vigeva la violenza e la sopraffazione.

A un certo punto questi elementi si collegarono a sistemi di potere che a loro volta li tollerarono perché in fondo facevano comodo, come ad esempio Garibaldi che ottenne il supporto da parte di questi baroni e risparmiò al suo esercito molti problemi nel territorio siciliano.

La motivazione principale della longevità di Cosa Nostra è da addebitare al fatto che la mafia è intrisa di politica e che senza essa non potrebbe esistere, altrimenti sarebbe un’associazione a delinquere come tante altre. La mafia è un sistema criminale politico.

Questa sua definizione di “Mafia” sembra andare in contrasto con la sentenza dellaCorte di Cassazione secondo cui il reato imputato nel processo “Mafia Capitale” non era associazione a delinquere di stampo mafioso vista l’assenza di omicidi e il basso tasso di violenza. Queste motivazioni bastano a non ritenere mafia una struttura come quella che operava a Roma?

Assolutamente no. Se guardiamo la storia di Cosa Nostra ci accorgiamo come il continuo negare la sua esistenza non abbia fatto altro che rafforzarla. La mafia non è mafia solo perché usa la violenza e la violenza non è solo ammazzare (tant’è che in questo momento anche le altre associazioni mafiose commettono pochissimi omicidi eppure esistono). La violenza può essere anche psicologica e intimidatoria oltre che fisica.

Il magistrato Gratteri in un’intervista ha dichiarato che per combattere in maniera efficiente un fenomeno mafioso bisognerebbe istituire una legislazione antimafia europea. Visto che lei è stato in passato a Strasburgo e tutt’oggi si occupa di sensibilizzazione riguardo il tema in Unione Europea, come vede questa proposta?

Io sono d’accordo anche se questo è un problema culturale. In questo momento sto intrattenendo un’intensa comunicazione epistolare con David Sassoli, Presidente del Parlamento europeo, a cui ho scritto che per sensibilizzare l’opinione pubblica forse è bene creare una giornata europea per la memoria delle vittime di mafia che possa far ragionare la gente su un fatto fondamentale, cioè che la mafia non è un problema italiano. La mafia tocca anche la Germania (dove da anni la ‘Ndrangheta ha una grande influenza), il Belgio, la Francia e la Spagna, dove ad esempio la Camorra ha una grande influenza.

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