LA VITA: UN DIRITTO NATURALE?

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Eutanasia e suicidio assistito. Ripercorriamo le tappe della storia legislativa italiana e scopriamo il pensiero degli studenti dello Jacopone.

Il diritto di scegliere della propria vita: niente di più discusso ai nostri giorni. Libertà alquanto scontata per alcuni, ma altrettanto complessa per altri. Negli ultimi mesi molti volti noti si sono resi protagonisti per aver espresso le loro opinioni relativamente a questo tema così delicato e allo stesso tempo così soggettivo. Le diverse controversie degli ultimi anni su argomenti tanto articolati come il testamento biologico, la sedazione palliativa, l’eutanasia e il suicidio assistito (soprattutto nel nostro Paese) hanno incrementato il percorso di approvazione di norme legislative, che ancora oggi non è del tutto concluso. Tanti hanno voluto esprimere un loro parere, ma non ci si è mai chiesti quanti in effetti fossero a conoscenza delle differenze tra questi temi. Ecco perché ci si è posti come principale obiettivo quello di riuscire a comunicare con quante più persone possibile, per non permettere loro di cadere nella falsa informazione.

Partiamo dal definire il concetto di “eutanasia”, che in greco antico significa letteralmente “buona morte”. Oggi tuttavia questo termine viene utilizzato con una accezione diversa, basata su l’intervento medico che porta alla morte del paziente malato o in fin di vita. Si divide in due categorie: si intende eutanasia attiva la somministrazione di un farmaco che causa immediatamente la morte del paziente, mentre l’eutanasia omissiva/passiva prevede solamente la sospensione delle cure mediche al fine di sollecitare il decesso del paziente. Oggi secondo la legislazione italiana l’eutanasia attiva è considerata un reato di omicidio volontario punibile con 6/15 anni di carcere.

Il suicidio assistito, contrariamente all’eutanasia con la quale viene spesso confuso, non prevede alcun intervento da parte di un medico, il quale fornisce in modo essenziale i procedimenti che il paziente deve seguire, senza agire in prima persona, ed è chiamato “assistito” in quanto può essere presente insieme al malato qualcuno da lui scelto.

Nel corso degli anni sono stati fatti in maniera graduale dei passi avanti per il riconoscimento dei diritti di un malato terminale, uno dei quali è l’approvazione nel 2017 della legge sul biotestamento, entrata poi in vigore nel 2018. La norma, valida per ogni maggiorenne, mira a contrastare il proseguimento ostinato di cure nel momento in cui queste, purtroppo, non sono più di alcun effetto, impedendo, così, qualsiasi forma di accanimento terapeutico. In tal senso rappresenta un progresso importante a favore della tutela del diritto alla vita, alla salute e alla dignità di ogni uomo.

Per quanto riguarda l’ambito legislativo, da ormai 30 anni si controbatte sulla questione, risale infatti al 1984 la prima proposta per la legalizzazione delle varie pratiche di fine vita. Per anni si è cercato di depenalizzare il reato di Eutanasia attiva, che ancora oggi è assimilabile all’omicidio volontario. Nel 2013, infatti, l’Associazione Luca Coscioni (un’organizzazione no profit di promozione sociale per la libertà di scelta) con circa 70 mila firme ha presentato una proposta di legalizzazione di questa pratica alla Camera, che, però, non portò a nulla. L’eutanasia passiva è anch’essa proibita, ma la norma al riguardo risulta più ambigua e meno soggetta a possibili denunce per chi la pratica. Nel caso del suicidio assistito, invece, il 24 ottobre 2018 la Corte Costituzionale ha preso la decisione di rinviare il verdetto, chiedendo l’intervento del Parlamento per colmare quello che è stato definito un vuoto legislativo. Oggi, con  la sentenza della Corte costituzionale del 25 settembre 2019, si è arrivati a stabilire la non punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, nel caso in cui il paziente, consapevole e in grado di intendere e di volere, sia in condizioni irreversibili e soffra di dolori intollerabili. La non punibilità è assicurata a patto che le condizioni di salute del paziente e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura sanitaria pubblica, previo parere di un comitato etico.

Nel corso della storia il tema del suicidio assistito o del suicidio in senso proprio è stato interpretato in modi diversi. Nelle civiltà classiche, per esempio, il suicidio era inteso positivamente, poiché esaltava la libertà di scelta dell’individuo riguardo alla propria vita; ma ciò iniziò a cambiare con l’avvento del cristianesimo. L’influenza della religione e della sua morale si è radicata profondamente nella mentalità odierna, così da creare schieramenti avversi, che in più casi si sono scontrati sulla tematica. In Italia sono stati vari i casi processuali relativi a questo tema. Tra i più conosciuti va citato di certo quello di Eluana Englaro. La ragazza in seguito ad un incidente stradale, rimase paralizzata e il suo cervello andò incontro ad una degenerazione definitiva, senza possibilità di recupero né di risveglio. Il padre allora prese dei provvedimenti legali per sospendere le cure e l’alimentazione forzata della figlia, convinto che se lei avesse potuto, avrebbe scelto di morire. Egli però incontrò varie opposizioni in questo percorso. Il processo tuttavia risale agli anni precedenti l’approvazione sulla legge del biotestamento, e rende chiaro come la situazione sarebbe potuta andare diversamente se la mozione fosse stata accettata prima. Ancora, nel 2006 abbiamo il caso di Piergiorgio Welby. Affetto da una grave forma di distrofia muscolare e quindi incapace di muoversi, chiedeva che si procedesse al distacco dell’apparecchio di ventilazione, sotto sedazione. Ma il medico opponeva un rifiuto in virtù degli obblighi etici ai quali si riteneva legato, per questo Welby dovette rivolgersi al Presidente Napolitano per poter essere sottoposto ad eutanasia. Il Presidente invitò le Camere a discutere del problema, ma rimase inascoltato e la questione passò in secondo piano al punto che l’anno successivo Welby morì grazie all’aiuto di un altro medico anestesista disposto a venire incontro alle sue esigenze. Da questo momento in poi si aprì un lungo processo sul riconoscimento del diritto del suo suicidio e sulla condanna che ci si aspettava fosse assegnata al medico che lo aveva accompagnato alla morte. Tuttavia in virtù di alcune condizioni la condanna non arrivò, anche in considerazione di un “vuoto giurisdizionale” e la mancanza di indicazioni su come agire in tali situazioni.

Il caso più recente e noto è di certo quello riguardante Dj Fabo il quale, non vedente e tetraplegico in seguito ad un incidente stradale, è stato accompagnato in una clinica svizzera da Marco Cappato per eseguire il suicidio assistito. Cappato (promotore della campagna Eutanasia legale e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni) si è poi autodenunciato ed è finito sotto processo con l’accusa di aiuto al suicidio. La Corte Costituzionale ha sospeso la sua decisione dando un anno di tempo al Parlamento per prendere un provvedimento sulla questione. Tuttavia nessuno è intervenuto per molto più tempo di quello stabilito, finché il 25 settembre di questo anno la Corte si è espressa di nuovo con un provvedimento piuttosto positivo, come già citato sopra. E’ chiaro che questo provvedimento riguarda totalmente il caso di Dj Fabo, comportando così l’assoluzione di Cappato, che ha solo contribuito alla realizzazione della volontà del ragazzo, in seguito ad una decisione presa in totale autonomia e consapevolezza, senza alcun tipo di influenza da parte di terzi. Sebbene questa sia solo la messa a fuoco di una piccola sfumatura giurisdizionale sul tema, costituisce anche un ulteriore passo in avanti nel tortuoso percorso verso la legalizzazione in Italia dell’eutanasia e del suicidio assistito.

Cosa per nulla scontata, soprattutto nel nostro paese, è la presa di posizione della Chiesa Cattolica, riguardo questi processi. Interessante è la posizione presa nel caso sopra citato di Piergiorgio Welby, al quale erano stati negati i funerali nel 1997, in quanto con la sua decisione aveva tradito quelli che sono i principi cristiani. Tuttavia nel 2017 le porte della chiesa di Sant’Ildefonso a Milano sono state aperte per Dj Fabo, probabilmente anche grazie ad una visione più moderna di Papa Francesco e della Chiesa stessa. Ciò è dimostrato anche dalla Carta degli operatori sanitari, ovvero un documento rivolto a quei professionisti che vogliono agire in armonia con le leggi della Chiesa. Questo documento, aggiornato da Papa Francesco afferma che «deve essere sempre rispettata la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente, ma il medico non è comunque un mero esecutore, conservando egli il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi dalla propria coscienza». In ogni caso tutto questo non determina una totale apertura, anzi  molte visioni cattoliche, ebraiche e musulmane sono ancora decisamente contrarie ai metodi di fine vita.

Un’ ulteriore visione, da prendere in considerazione su questi temi, è quella dei partiti politici, riguardo anche la recente decisione della Corte Costituzionale. Si sono espressi contrari in particolare il leader della Lega Matteo Salvini e la leader di Fratelli D’Italia Giorgia Meloni. Un punto di vista sicuramente più a favore della decisione della Consulta è invece quello del partito Movimento 5 stelle e della senatrice Monica Cirinnà del Pd che dichiarano la sentenza “storica”. Invece si dimostra contraria a queste pratiche la CEI (conferenza episcopale italiana), affermando che «la preoccupazione maggiore è relativa soprattutto alla spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità».

Dal quadro generale esposto possiamo ben capire quanto sia ancora lontano il raggiungimento del successo nella lotta alla legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito e quanto, contemporaneamente, sia stato difficile ottenere i parziali progressi legislativi a cui si è giunti. Va riconosciuto di certo che la tematica trattata è piuttosto controversa e chiama in campo ambiti di natura diversa, da quello legale a quello morale e religioso. Risulta quindi difficile per persone non coinvolte nelle tragiche situazioni messe a processo, prendere la posizione “giusta” sul modo in cui queste dovrebbero essere gestite. Ma se solo provassimo ad immaginare di essere in prima persona coinvolti in quelle dinamiche, vorremmo davvero che ci venisse vietato il diritto di scegliere della propria vita o della propria morte? Saremmo realmente disposti a reprimere la nostra volontà di autodeterminazione? Non è forse questo un diritto naturale e inalienabile? Dal sondaggio condotto all’interno della nostra scuola (i cui relativi grafici sono illustrati nell’articolo) su un campione di cinquanta persone, tra professori e ragazzi delle classi quarte e quinte, la grandissima maggioranza di questi si è mostrata a favore del riconoscimento della libertà di scegliere, in situazioni critiche, cosa fare della propria vita.

Sebbene ricavato da un raggio di analisi piuttosto ristretto, il risultato ottenuto non è affatto insignificante, poiché dimostra l’apertura mentale dei giovani verso le libertà personali fondamentali, e il loro rispetto per la dignità di ogni individuo.

Dai dati ricavati dal sondaggio possiamo percepire quanto sia povera l’informazione relativa a queste tematiche di grande importanza e attualità, principalmente da parte dei giovani.

Se quindi puntassimo a valorizzare l’opinione delle nuove generazioni e se tutto ciò venisse supportato da una maggiore informazione in materia, questo apporterebbe di certo un contributo decisivo per spianare la strada al riconoscimento di quell’ “umanità” che, anche alle luce dei casi sopra riportati, probabilmente ogni persona merita.

Lucia Contenti e Martina Mannaioli


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